Il diritto alla bi-genitorialità tra legge e prospettive di riforma

DiIda Grimaldi

Il diritto alla bi-genitorialità tra legge e prospettive di riforma

Allora il re ordinò: “Prendetemi una spada!”. Portarono una spada alla presenza del re.

Quindi il re aggiunse: “Tagliate in due il figlio vivo e datene una metà all’una e una metà all’altra”.

La madre del bimbo vivo si rivolse al re, poiché le sue viscere si erano commosse per il suo figlio, e disse: “Signore, date a lei il bambino vivo; non uccidetelo affatto!”.

L’altra disse: “Non sia né mio né tuo; dividetelo in due!”.
Presa la parola, il re disse: “Date alla prima il bambino vivo; non uccidetelo. Quella è sua madre”.

(La Sacra Bibbia Capitolo 1RE 3,16-28)

L’episodio biblico sopra riportato é la storia del neonato conteso da due madri che ricorrono al giudizio di Salomone. Il re di Israele, nell’impossibilità di stabilire quale fosse quella vera, ordinò alle guardie di tagliare il bimbo a metà con la spada e di darne un pezzo a ciascuna. Quella che rinunciò al bambino per salvargli la vita fu riconosciuta come la mamma autentica.

Salomone in realtà non aveva alcuna intenzione di far tagliare a metà il bambino: voleva soltanto vedere cosa avrebbero fatto le donne. Egli sapeva che la madre del bambino non avrebbe permesso che si facesse del male a suo figlio.

L’incipit del Re Salomone, dunque, pare il più indicato ad introdurre il tema della “bi-genitorialità” onde ricordare che, oltre ogni disposizione giuridica, oltre ogni indagine sulle migliori condizioni di affido, oltre ogni sentenza, c’è un principio di umanità che esiste dall’inizio dei tempi e che non ci può abbandonare.

Il diritto alla bi-genitorialità

L’evoluzione del diritto di famiglia nel nostro ordinamento, allo stato dell’arte, rende viva la necessità di occuparsi della portata e dei confini entro cui circoscrivere il concetto di bi-genitorialità – introdotto dalla legge n. 54 del 2006 – teleologicamente orientato a garantire l’effettività del diritto dei figli a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, anche a seguito della separazione dei genitori.

Va detto che, a partire preminentemente dal 1975, anno della riforma del diritto di famiglia, fino alla legge sull’affido condiviso, vigeva la regola dell’affido mono genitoriale dei figli, interpretata quasi sempre nella prassi come affido esclusivo alla madre; se è vero, dunque, fino al  2006 si poteva parlare di uno squilibrio legislativo che emarginava il giusto ruolo dei padri nella cura ed educazione dei figli, è altrettanto vero che oggi la normativa relativa all’affidamento dei figli è adeguatamente bilanciata e  strutturata.

La Legge n. 54 del 2006 sull’affido condiviso ha, infatti, recepito il principio della bi-genitorialità come diritto fondamentale del minore, già sancito dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 ratificata con la legge n. 176/1991 e successivamente dalla Carta di Nizza del 2000.  Detta normativa, tuttavia, con la formula “affidamento condiviso” , non ha mai inteso che i genitori provvedessero con divisione matematica ad occuparsi del proprio figlio, bensì che, in quanto genitori, conservassero le proprie responsabilità: «la potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori.[…]Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione e alla salute sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli».

L’ art. 155 cc, introdotto dalla Legge n. 54/2006 in risposta alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, esplicita, infatti, il diritto del minore a «mantenere un rapporto equilibrato e continuativo» con entrambi i genitori, ricevendo cura, educazione e istruzione.  Gli aspetti più rilevanti della riforma sono dunque la centralità del minore ed il suo superiore interesse, capovolgendo quindi la prospettiva giuridica; per questa nuova visione diviene fondamentale che il giudice ascolti il minore, in linea con l’art. 12 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo.

Sono poi intervenuti la l. 219/2012 recante “Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali” e il d.lgs. 154/2013 recante “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, ai sensi dell’art. 2 della legge 219/2012” che hanno ridisegnato la disciplina della filiazione nel suo complesso. In questo ambito si colloca l’abbandono della potestà genitoriale che cede il passo alla responsabilità genitoriale: la chiave di volta della nuova riforma sta proprio nella sostituzione della parola “potestà” con “responsabilità” genitoriale: si passa dal figlio soggetto alla potestà dei genitori a una responsabilità dei genitori verso il figlio.

A tal fine il decreto filiazione n.154 del 2013, con il nuovo art. 315 bis c.c., sotto la rubrica, “Diritti e doveri del figlio”, riconosce una maggiore “centralità” al ruolo del minore sia all’interno del processo, estendendo le possibilità di ascolto del minore a tutti i procedimenti che lo riguardano, sia nella relazione con i genitori, introducendo e, nel contempo, rafforzando il concetto di “responsabilità genitoriale”. Il figlio assume, quindi, centrale importanza, divenendo soggetto attivo nel rapporto genitoriale così come sancito nel nuovo art. 316 c.c. sotto la rubrica “Responsabilità genitoriale”: “Entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale che è esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore”.

Vediamo, dunque, come le riforme susseguitesi negli ultimi anni nell’ambito del diritto di famiglia abbiano tutte perseguito l’intento di attuare il pieno diritto del minore, nato sia all’interno sia fuori del matrimonio, ad un rapporto equilibrato e continuativo con entrambe le figure genitoriali, anche dopo la disgregazione del nucleo familiare, affermando il principio della bi-genitorialità non come legittima rivendicazione del genitore, ma piuttosto come diritto del figlio di ricevere cura e amore da ambedue i genitori a meno che la condotta di uno di essi non gli arrechi pregiudizio, cedendo il passo, in tali ipotesi, a diritti di rango primario quali il diritto del fanciullo alla salute costituzionalmente garantitogli.

Prospettive di riforma: il Disegno di Legge n. 735/2018 e affini

Il tema della bi-genitorialità sicuramente è di stringente attualità come emerge dai propositi di riforma di cui al DDL S.735 del 2018 (e gli altri affini n.45, 118,  768 e 837) presentato in Parlamento il 1 agosto 2018 dal Senatore Simone Pillon (d’ora in avanti il d.d.l.),  in materia di “affido condiviso, mantenimento diretto e garanzie di bi-genitorialità”,  con l’obiettivo dichiarato di apportare rettifiche all’attuale normativa in materia di affidamento condiviso e, più nel dettaglio, di modificare quanto finora previsto, in caso di separazione dei genitori, sul mantenimento dei figli e sulla regolamentazione dei rapporti di ciascun genitore con i figli stessi.

Tale proposta legislativa, tuttavia, è stata al centro di forti discussioni sin dal suo nascere, in quanto tacciata di muovere da un quadro irreale e distante dalle peculiarità del nostro sistema giuridico, politico, sociale ed economico, disancorandosi dalla realtà quotidiana che vivono  le famiglie che si disgregano.

Vero è che il legislatore, quando è chiamato ad occuparsi di problematiche che attengono alla sfera più intima della vita delle persone, dovrebbe porsi in un atteggiamento di ascolto, cercando di riconoscere la diversità delle istanze che, nella complessità dell’esistenza, chiedono disciplina e tutela.

E’ per questo che l’art. 29 della Costituzione, che garantisce l’istituto familiare dalle indebite ingerenze da parte del potere pubblico, è collocato nel quadro più generale rappresentato dagli articoli 2 e 3 della Costituzione, con privilegio del libero svolgimento della personalità nelle formazioni sociali.

Ciò sta a significare che il legislatore non deve privilegiare un approccio ideologico, ricorrendo a modelli astratti di famiglia e modellando su di essi la vita delle persone ma, al contrario, è la disciplina giuridica che deve dare corpo al diritto vivente, sulla base dello sviluppo storico e culturale della società.  Giova ricordare l’invito di Stefano Rodotà[1] ad essere consapevoli di quanto pericoloso possa divenire il diritto “quando incontra la vita delle persone e si comporta come se non esistesse”.  La stessa giurisprudenza della Corte Costituzionale afferma che la Costituzione non può tollerare una concezione della famiglia “nemica delle persone e dei loro diritti” (C. Cost., sent. N.494/2002).

Ciò che, invece, è stato osservato rispetto al  d.d.l., è che esso pare muovere da un presupposto diametralmente opposto rispetto a quello sopra delineato, in base al quale esiste un modello di famiglia astratto, fondato sul matrimonio eterosessuale, possibilmente indissolubile,  al quale dovrebbero adattarsi le concrete esperienze di vita e di dolore, in primis l’interesse del fanciullo ad una vita serena ed equilibrata.  Sarebbe tale visione, dunque, che avrebbe  portato alla stesura di un impianto costruito su quattro pilastri che di seguito brevemente si espongono:

a) Mediazione civile obbligatoria.

Il primo proposito del d.d.l. è quello di rendere obbligatoria la mediazione familiare. Va tuttavia rilevato che, dalla lettura degli articoli relativi alla mediazione (art. 1, 2, 3, 4, 7, 13, 22) e alla nuova figura del coordinatore genitoriale (art. 5), nonché dalla stessa relazione illustrativa, pare emergere una sovrapposizione fra il modello di mediazione familiare e il modello di mediazione civile tipico degli altri settori del diritto, concepita come percorso alternativo per dare soluzione rapida a controversie civili relative a diritti disponibili[2]. La mediazione familiare, che sicuramente

sicuramente ha un ruolo importante nella definizione di un accordo di separazione, risponde, invece, ad altre logiche: le parti coinvolte, anche se separate come coppia, in presenza di figli dovranno continuare ad avere rapporti tra loro come genitori.

L’obiettivo, quindi, non dovrebbe essere il mero raggiungimento di un accordo, come nella mediazione civile, bensì quello di aiutare la coppia a dialogare, a comprendere l’importanza di rispettarsi orientandosi verso scelte volte ad individuare l’interesse concreto dei figli e non del proprio. E’ per questo motivo che la mediazione familiare, per essere efficace, non dovrebbe essere obbligatoria, ma dovrebbe essere libera e incondizionata.

Andrebbe anche considerato che vi sono casi, come quello della violenza domestica, ove la separazione è necessaria per salvaguardare l’integrità fisica e psicologica dei figli o di uno dei genitori, che nella maggior parte dei casi, statistiche alla mano, è la madre. La violenza, dunque, non può essere mediabile tenendo conto, altresì, che l’art. 48 della Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata in Italia con legge n.77/2013, esige agli Stati di “proibire metodi obbligatori alternativi risolutivi durante i processi, inclusi la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza”.

Da più parti è stato inoltre osservato che, nei requisiti indicati per esercitare la professione di mediatore, non è stata introdotta alcuna opportuna garanzia di mirata professionalità, mentre è stata introdotta, altresì, la figura del coordinatore genitoriale, diversa dal mediatore familiare, figura privata cui sono attribuiti poteri decisionali (“gestire in via stragiudiziale le controversie” art. 5 d.d.l.) nei casi di alto livello di conflitto, ove sarebbe necessario l’intervento del Giudice.

La proposta legislativa, inoltre, nello stabilire l’onerosità del procedimento di mediazione familiare, pare non aver previsto la possibilità di beneficiare del Patrocinio a spese dello Stato.

b) Equilibrio tra entrambe le figure genitoriali e tempi paritari.

In base all’art. 11 del d.d.l., a prescindere da quali siano i rapporti dei figli con i genitori, il figlio minore dovrà permanere con tempi paritari presso entrambi i genitori. In particolare, il minore deve trascorrere non meno di 12 giorni al mese, pernottamenti compresi, sia con il padre sia con la madre. Il giudice, inoltre, dovrà stabilire l’affidamento dei figli in via condivisa ad entrambi i genitori, con doppio domicilio del fanciullo non potendosi più identificare un genitore collocatario.

Collegando, dunque, la bi-genitorialità ad una ripartizione paritetica del tempo che il figlio è chiamato a trascorrere con ciascun genitore, la proposta di riforma prevede che l’interesse del minore sia quello di contare su due case, eliminando conseguenzialmente l’istituto dell’assegnazione della casa familiare, elevato, tuttavia, dalla Corte Costituzionale, a parametro fondamentale e prioritario di riferimento.

Sul punto va rilevato che il fanciullo, coinvolto suo malgrado nella crisi genitoriale, dovrebbe avere il diritto a conservare il proprio principale punto di riferimento abitativo, mentre appare dubbio che possa essere nel suo interesse vivere da pendolare, spostandosi da una casa all’altra: un soggetto in formazione qual è il minore, esige, infatti, una stabile organizzazione di vita. Non va dimenticato che il diritto all’attribuzione della casa in presenza di figli minori, con gli arredi ivi esistenti e con tutto ciò che è funzionale alla famiglia, costituisce una forma di tutela prevista dall’ordinamento della quale i figli non possono essere privati. La Corte Costituzionale (n. 308/2008), ha infatti interpretato la norma codicistica relativa all’assegnazione della casa familiare, con gli arredi in essa esistenti, alla luce di quell’interesse dei figli elevato a parametro fondamentale e prioritario di riferimento. Sono i figli a godere della possibilità di continuare a vivere nell’abitazione presso la quale hanno trascorso i primi anni della loro vita.

Il concetto di residenza abituale è inoltre espresso dall’art. 8 del Reg. U.E. n. 2201/2003 (criterio inderogabile nel prevedere la competenza internazionale  dell’autorità giudiziaria dello stato membro in cui il minore risiede abitualmente alla data della domanda) che detta un principio ispirato dall’interesse del minore e dal criterio della vicinanza, motivo per cui il  decreto filiazione del 2013 (d.lgs. n. 154/2013) ha introdotto, all’art. 316 c.c., assieme al concetto di responsabilità genitoriale, anche il concetto di residenza abituale, nell’intento di garantire al minore, anche attraverso il mantenimento di una dimora abituale, una irrinunciabile stabilità esistenziale.

c) Mantenimento dei figli in forma diretta.

Il d.d.l., come logica conseguenza della collocazione del bambino con tempi paritari presso i genitori, propone l’eliminazione dell’assegno di mantenimento: ciascun genitore provvederà al mantenimento del figlio per il tempo in cui il bambino risiede presso di lui.

Ci si permette di rilevare, tuttavia, come tale disposto non paia considerare le diseguaglianze economiche ancora presenti, nel nostro Paese, tra uomini e donne, specie in ambito lavorativo, laddove il 50,7% delle donne italiane non lavora e si occupa esclusivamente della famiglia, mentre il 40% delle donne, che si dimette dal lavoro, lo fa dopo la nascita dei figli. L’assegno di mantenimento, infatti, trova la sue necessità nel garantire il diritto dei figli a vedere deputate alle loro esigenze risorse analoghe o tendenzialmente equivalenti a quelle dedicategli nel corso della convivenza familiare e a non subire, quindi, conseguenze economiche dalla separazione dei genitori. Il mantenimento diretto, così come previsto nell’impianto del d.d.l. in esame, rischierebbe dunque di evidenziare la disparità di posizione economica dei genitori, ancor più evidente nei periodi di permanenza del figlio presso uno o presso l’altro, con probabile ripercussione sulla esistenza del figlio e sulla qualità della relazione genitoriale.

Andrebbe anche considerato che, in caso di inadempienza di uno dei due genitori, l’altro non avrebbe alcun titolo da azionare.

Qualche perplessità ha destato nei primi commentatori anche la previsione secondo la quale il mantenimento del figlio maggiorenne non autosufficiente dovrebbe cessare tout court con il compimento del 25° anno di età, in quanto si porrebbero problemi di discriminazione tra figli di genitori separati e/o divorziati e figli di genitori coniugati e/o conviventi.

d) Contrasto alla c.d. alienazione genitoriale.

Il d.d.l. si propone di  contrastare la c.d. “alienazione parentale” invocata quando un bambino rifiuta un genitore, sulla base di motivazioni ritenute non attendibili. Gli artt. 17 e 18 del d.d.l. prevedono che, se il figlio minore manifesta comunque rifiuto, alienazione o estraniazione verso uno dei genitori, pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori, il Giudice può prendere provvedimenti di urgenza, quali la limitazione o sospensione della responsabilità genitoriale, l’inversione della residenza abituale del figlio minore e il collocamento provvisorio del minore presso apposita struttura specializzata.

E’ stato al proposito osservato come, detta ipotizzata disciplina, obliteri tutto il dibattito scientifico sulla teoria della cosiddetta “alienazione parentale” e non dia spazio alla valutazione di motivi per i quali un bambino possa arrivare a rifiutare uno dei due genitori. Va all’uopo premesso che l’alienazione genitoriale, che fino al 2012 veniva denominata PAS/sindrome di alienazione parentale, è un concetto che si è cercato di introdurre nelle aule dei Tribunali italiani dal 1997, a seguito della traduzione di un articolo di un medico americano pubblicato nel 1985  negli USA su una rivista di opinioni, per costringere un minore ad accettare la relazione col genitore rifiutato, senza tener conto della sua opinione. In caso di ostinato rifiuto la relativa terapia, detta “terapia della minaccia”, prevede la collocazione etero-familiare del bambino affinché sia “resettato” dalle manipolazioni subite. Detto teoria, tuttavia, é molto discussa perché non riconosciuta dalla scienza medica nazionale ed internazionale, non avendo basi scientifiche, stando anche a quanto dichiarato dal Ministero della Salute nel 2012 e confermato dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 7041/2013.

Il Prof. Luigi Cancrini, psichiatra e psicoanalista di fama internazionale, Presidente del Centro Studi di terapia familiare e relazionale, ha definito detto costrutto “una forma di violenza sui minori, che toglie loro qualsiasi dignità di persona pensante” (cfr. Sole24ore/Sanità 26 mar. – 1 apr.2013).

Il legislatore, dunque, dovrebbe forse usare prudenza in una materia così delicata che coinvolge i minori, poiché una norma che abbia come presupposto una teoria come quella menzionata, non valorizza l’opinione del fanciullo, ponendosi quindi in contrasto con la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo.

Allarme tra gli operatori del diritto hanno quindi creato gli artt. 9, 11, 12, 17 e 18 del d.d.l.,  laddove, non prendendo in considerazione le situazione di violenza endo-familiare, punirebbero severamente ipotesi di “alienazione parentale” e laddove, all’art. 14, si impedirebbe al nucleo genitore/minore vittima di violenza, fuggire  dal luogo delle violenze e rifugiarsi in un luogo sicuro e protetto. Ciò metterebbe a rischio il diritto alla salute e all’integrità psicofisica dei soggetti vulnerabili, non considerando quanto previsto dagli articoli 26 e 31 della Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata in Italia con Legge n.77/2013, che riconoscono esplicita rilevanza alle situazioni di violenza e abuso sessuale ai fini della pronuncia del regime di affidamento dei minori.

Il ruolo della giurisdizione nelle prospettive di riforma

Fatto un breve e generale cenno alle disposizioni contenute nel d.d.l., si pone una breve riflessione sull’intervento in materia di giurisdizione che la nuova proposta legislativa  andrebbe ad  attuare.

Il testo proposto, tramite l’obbligatorietà dell’istituto della mediazione familiare a pena di improcedibilità, rischierebbe di violare il diritto alla giustizia, rendendone altresì impossibile l’accesso diretto  nei casi di urgenza o di grave pregiudizio dei minori, così come detto testo, non stabilendo l’obbligatorietà dell’assistenza e della rappresentanza tecnica da parte dell’avvocato e prevedendo la possibilità del mediatore di estromettere l’avvocato dagli incontri in sede di mediazione, potrebbe causare nocumento al diritto di difesa.

Altrettanta perplessità ha destato tra i Giuristi[3], in tema di giurisdizione, la previsione di istituti sostitutivi della discrezionalità del potere decisorio del Giudice,

quali la mediazione, il piano genitoriale, il coordinatore genitoriale, istituti che vengono inseriti all’interno del processo e che vengono rafforzati con sanzioni processuali che sono l’improcedibilità, per quanto riguarda la mediazione preliminare, sono addirittura la nullità qualora il piano genitoriale non venga inserito nella separazione consensuale e sono la sospensione obbligatoria, con devoluzione al coordinatore genitoriale, qualora la conflittualità permanga all’interno del giudizio. In merito è stato osservato[1] il rischio di dilungare oltremodo la durata del processo, in un giudizio che prevede un moltiplicarsi di soggetti, quali i figli maggiorenni e i nonni, ciascuno dei quali, qualora si ritenga colpito da un’ordinanza del giudice istruttore, può chiedere di ricorrere al collegio tramite lo strumento del reclamo. Non è previsto, invece, un corrispondente diritto del minore a partecipare al giudizio, tramite la previsione di un intervento del curatore speciale, chiamato a tutelare la posizione del figlio nei procedimenti in cui si discute dei suoi diritti e nei quali vi è un potenziale conflitto con le posizioni dei genitori.

Tali ipotizzate linee di intervento, all’interno dei procedimenti di separazione e di divorzio, così come proposte, parrebbero dunque snaturare il ruolo dell’avvocatura e della magistratura, oltre che quello delle parti, con il rischio di ledere il processo quale strumento di lavoro e di attenzione alla tutela del sistema giustizia; né va sottaciuto l’importanza di non vanificare gli importanti approdi che, sulla base della disciplina attualmente vigente, sono stati faticosamente raggiunti nella giurisprudenza e nelle prassi operative con il sostanziale e decisivo apporto anche dell’Avvocatura.

E’ dunque importante la ricerca di un equilibrio nel rapporto tra la soluzione legislativamente offerta e il tema della giurisdizione laddove, da un lato, deve essere lasciato al Giudice il potere discrezionale in funzione di una giustizia del caso concreto e, dall’altro, dev’essere salvaguardato il ruolo costituzionale dell’Avvocato, quale baluardo di difesa e di tutela dei diritti dei cittadini, in special modo se persone fragili e deboli.

Conclusioni

L’impianto proposto dal d.d.l. 735/2018 e affini pare poggiare sulla interpretazione del diritto alla  bi-genitorialità quale diritto dell’adulto alla pariteticità ed equipollenza del tempo da trascorrere con il minore e non quale diritto  del fanciullo a ricevere, da parte dei genitori, cura, amore, istruzione, educazione.

Ciò potrebbe condurre ad un nuovo sistema giuridico volto ad una visione adulto-centrica della gestione delle dinamiche disgregative familiari, con il rischio di trasformare il bambino da soggetto di diritto, traguardo lodevolmente raggiunto dal nostro Paese con il decreto filiazione del 2013, ad oggetto di diritto, da dividere a metà tra i genitori, come ai tempi del Re Salomone. Va sul punto osservato che, come di recente sottolineato dalla Corte di Cassazione con sentenza del 30 luglio 2018, n. 20151, il diritto alla bi-genitorialitàsi configuri, piuttosto che come un diritto, come un munus, e che la stessa regolamentazione del c.d. diritto di visita del genitore non affidatario  debba far conto del profilo per cui un tal diritto si configura esso stesso come uno strumento in forma affievolita o ridotta per l’esercizio del fondamentale diritto-dovere di entrambi i genitori, di mantenere, istruire ed educare i figli, il quale trova riconoscimento costituzionale nell’ art. 30 primo comma Cost. e vien posto, dall’art. 147 c.c., fra gli effetti del matrimonio (Cass. 19 aprile 2002, n. 5714)[4].

Il bambino ha, infatti, tutta una serie di diritti, come persona prima che come figlio, quali il diritto alla salute e alla sicurezza, il diritto allo sviluppo della sua personalità, il diritto alle relazioni che non sono solo parentali, ma anche sociali, amicali e scolastiche, fondamentali, assieme a quelle familiari, per la sua evoluzione.

Va al contempo evidenziato che, nel nostro ordinamento, la normativa relativa all’affidamento condiviso è già adeguatamente strutturata e fortemente e positivamente innovata dal decreto filiazione del 2013 (d.lgs. n.154/2013), che ha finalmente messo il fanciullo al centro eliminando, altresì, le discriminazioni esistenti tra figli nati all’interno del matrimonio o fuori da esso.

Il nuovo art.337 ter del nostro codice civile, sancisce compiutamente il principio di bi-genitorialità, che è alla base dell’affidamento condiviso, ed è una norma che introduce, altresì, nel suo comma 4, un principio di mantenimento diretto, adeguandolo tuttavia alla complessità della realtà quotidiana.

Il punto, dunque, non è la carenza normativa in materia, ma la necessità di rendere effettivi i principi già esistenti nel nostro Ordinamento, sempre tenendo presente che “la famiglia è un’isola che il mare del diritto può solo lambire, ma non penetrare (Jemolo).

Avv. Ida Grimaldi – La Previdenza Forense n°1 2019

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[1] S. Rodotà, Diritto d’amore, Roma-Bari, Laterza, 2015, p.17.

[2]Centro Studi Livatino; “Riforma dell’affido condiviso: profili critici e ragioni di contrarietà”, in https://www.centrostudilivatino.it/affido-condiviso-profili-critici-e-ragioni-di-contrarieta/

[3] Dottoressa Franca Mangano, intervento al Convegno Riforma del diritto di famiglia e DDL Pillon. I doveri degli adulti e i diritti dei bambini”. Roma, 18 dicembre 2018,  Senato della Repubblica, organizzazione a cura di Magistratura Democratica e Articolo 21

[4] Si segnala un interessante commento a Cass. 30 luglio 2018 n. 2051e altre,  cura del Dott. G. Casaburi in Il Foro Italiano n. 11/2018.

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